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Dal Nagorno Karabakh

Roberto Travan, reporter di guerra
Reportage di guerra da un paese conteso tra Armenia e Azerbajian

Giornalista professionista e reporter indipendente, Roberto Travan dal 2011 documenta conflitti e crisi umanitarie. Tra i suoi progetti fotografici a lungo termine c'è anche quello in Nagorno Karbakh, un territorio del Caucaso meridionale contesto tra Armenia e Azerbajian, dove da decenni si consuma una guerra silenziosa.

Proprio questo progetto trova spazio nella programmazione del 42° Oriente Occidente Dance Festival, con una mostra fotografica dal titolo Le guerre degli altri, allestita alla Campana dei Caduti e inaugurata proprio dall'autore sabato 3 settembre alle 10 del mattino.

Roberto Travan spiega qualcosa in più del suo progetto e del suo lavoro di fotogiornalista.

Come è nato Le guerre degli altri"?

Le guerre degli altri fa parte di un progetto fotografico iniziato dieci anni fa su alcuni conflitti dimenticati nel quale ho dedicato un capitolo al Nagorno Karabakh. Sono stato lì la prima volta nel 2014, poi nel 2015 e infine 2020 durante la Guerra dei 44 giorni. È un lavoro a lungo termine per provare ad accendere i riflettori dell’informazione su queste autentiche “zone d’ombra” della Storia, cercando di evitare la narrazione sovente frettolosa e superficiale del giornalismo “mordi e fuggi”. Il titolo Le guerre degli altri sottintende innanzitutto una polemica con noi stessi, noi che abbiamo il privilegio di vivere in pace e siamo portati a considerare le cosiddette “guerre dimenticate” come un qualcosa di distante, che non ci riguarda, talvolta neanche meritevole della nostra attenzione. Non credo dovrebbe esistere questa definizione perché non ci sono guerre più meritevoli di altre per essere raccontate: l’indifferenza è inaccettabile perché la guerra non risparmia nessuno.

Nella mostra sembra centrale il focus sulla popolazione che in qualche modo subisce il conflitto ignorato dai media e dall’opinione pubblica. Quali sono gli aspetti che vuole far emergere dalle sue fotografie?

Come in tutte le guerre, chi paga il prezzo più alto è la popolazione civile: i civili che muoiono, quelli che perdono tutto ciò che hanno, quelli costretti a fuggire. Ma anche coloro che restano sebbene costretti a vivere in un limbo in cui tutto è sospeso e privo di alcuna certezza; un luogo in cui non esistono le parole pace, futuro, tempo perché la guerra, eternamente in agguato, cancella qualsiasi prospettiva.

Perché si sceglie di fare un lavoro come questo? Qual è la motivazione che spinge un giornalista in guerra, soprattutto in situazioni che non sono al centro dell’attenzione mediatica?

La prima spinta è quella della curiosità: partire per vedere, ascoltare, cercare storie, toccare con mano il dramma della guerra. Poi la necessità di capire ciò che si vede, passaggio che richiede conoscenza, equilibrio, imparzialità. In particolare per quanto riguarda i “conflitti dimenticati” non tanto dall’opinione pubblica - le persone possono dimenticare ciò che gli è stato raccontato, non quanto gli è stato nascosto - ma dall’informazione e dalla comunità internazionale che sovente hanno tutto l’interesse a tacere queste guerre. È il caso del conflitto in Karabakh dove l’aggressione dell’Azerbajian in tutti questi anni è stata sostanzialmente nascosta o distorta a causa degli enormi interessi finanziari che legano quel Paese all’Europa e all’Italia. Infine testimoniare, perché questo è il ruolo fondamentale e insostituibile demandato ai giornalisti: fissare la verità stando sempre un passo indietro.

Nel 2016 è stato dichiarato persona “non grata” dall’Azerbaigian. Come ha vissuto qual momento?

La lista nera è molto lunga e include tutte le persone entrate in Karabakh negli ultimi anni senza passare dall’Azerbajian, cosa peraltro impossibile perché fino al 2020 non esistevano corridoi tra i due Paesi. Resta il fatto che impedire a un giornalista di accedere a una zona di guerra è una limitazione gravissima, ennesima conferma della scarsa libertà di cui gode la stampa in Azerbajian.

C’è una storia in particolare tra quelle raccolte in Nagorno Karabakh che è più significativa?

Due persone i cui ritratti fanno parte della mostra. La prima è un’anziana signora, aveva più di 80 anni, che durante i bombardamenti a Stepanakert non poteva scappare a causa di una malattia che la costringeva all’immobilità: quando ho pubblicato la sua foto si è attivata una grande gara di solidarietà della comunità armena in Europa per metterla in salvo. L’altra è la storia di Susan Movsesyan: aveva solo tre mesi quando nel 1992 sua madre la portò nel seminterrato del teatro di Stepanakert per proteggerla dagli azeri. Susan, ventotto anni dopo, è tornata nello stesso rifugio durante la Guerra dei 44 giorni. Le sue parole mi sono rimaste scolpite: "Questa guerra ha infranto tutti i miei sogni. Non abbiamo nulla contro l'Azerbaigian: vogliamo solo vivere in pace nella nostra patria storica”.

Nel suo percorso di giornalista ha realizzato reportage da diversi territori teatro di conflitti. Cosa accomuna tutte queste esperienze?

Se c’è un comune denominatore in tutte è ovviamente la sofferenza delle popolazioni, il dolore dei rifugiati, il dramma dei rimasti. Sovente anche il tentativo di associare ai conflitti motivazioni religiose per creare fratture ancora più profonde, condivise, insanabili: la distruzione sistematica dei monasteri e dei simboli cristiani nei territori armeni occupati dall’Azerbajian purtroppo conferma questa vile e drammatica strategia.