“Scorie” è un viaggio nel mondo dei segni, della scrittura. Ma un viaggio a ritroso. Immaginiamo che, come in “Fahrenheit 451”, il celebre romanzo di Ray Bradbury, un potere assoluto metta al rogo tutti i libri. L’uomo sarebbe costretto a reinventare la scrittura e lentamente ripercorrerebbe il cammino evolutivo di milioni di anni. Ma potrebbe farlo senza la carta e la penna, usando invece musica, colori, gesti mimici. Questo propone Koinè: una scrittura da palcoscenico fatta di movimenti, colori, forme, una serie di geroglifici sui quali è libera di lavorare la nostra fantasia.
La strategia dello spettacolo si annuncia fin dal principio: “l’opera comincia con due pagine bianche. Tutte le opere cominciano con due pagine bianche”. Un insinuante paradosso che prende quota nei cinque quadri successivi. Le immagini scorrono, fluide. Una collina nera in un’alba ipnotica, sulla sommità l’idolo alfabetico, una macchina da scrivere, si mostra ammiccante da tutti i lati, conteso da mani frenetiche. Un fondale che si popola come una pagina di graffiti e ideogrammi è attraversato morbidamente dagli attori. Una fotocopiatrice lascia tracce sui corpi e sugli abiti mentre poco più oltre si mescolano in una danza ibrida la fervida determinazione delle donne mamdhari in pellegrinaggio ai santuari himalayani e i linguaggi addominali del bacino mediterraneo. L’erezione di un grande dolmen, che porta incisa la famosa bocca di Man Ray, prelude al caos alfabetico dell’ultimo quadro. Qui la parola sbalza fuori dal senso si cancella nella bocca, si abbandona all’emozione e alla memoria. In questo tracciato liberato dal conformismo estetico, il gruppo Koinè si muove con eleganza e con genialità acquisendo perizia e spericolatezza, senza tradire la storia e giocando sottilmente sull’oggi. Carlo Infante