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07/09/1985 - 19:00

Teatro Zandonai

Daphnis e Chloé

Irriducibile, inclassificabile, Jean Claude Gallotta. Fin dagli inizi, inverte il percorso tipico di acculturazione tecnica della danza: ancor prima di aver imparato a danzare professionalmente, a 23 anni compone la sua prima coreografia. Alla danza giunge a 20 anni, dopo un’esperienza di studente delle Belle Arti. Studia tip-tap e balletto classico, e appena tre anni dopo inizia a comporre per suo conto. Senza troppa convinzione, forse. Il grande timido Gallotta, classe 1950, nativo di Grenoble, guarda al mondo della danza con sbalordimento infantile, con attrazione sospetto. Ma non è convinto. Forse è proprio una certa genealogia – il mondo della tradizione della danza in cui si imbatte – ciò che non lo convince. Ambizioso e irrequieto, tende a salire in alto: così in alto, rispetto alla materia del corpo, che pensa persino di voler diventare prete. Ma esita, lasciandosi tuttavia sedurre dalle filosofie spiritualiste. Non a caso , in questi ultimi anni di lavoro si innamora della danza di Merce Cunningham, il coreografo americano che più di ogni altro nella danza contemporanea sembra inseguire (in una direzione quasi balanchiniana) un’idea platonica di bellezza pura. Per Jean-Calude Gallotta è una rivoluzione: in quel rigore disincarnato, in quelle fredde armonie siderali, gli sembra di identificare la concretizzazione delle proprie idee sulla danza.Attraverso la visione degli spettacoli di Cunningham, Gallotta scopre il proprio obiettivo di lavoro: filtrare l’arcano della fisicità in una nuova coscienza poetico-intellettualistica che sappia sublimare la più immediata realtà pragmatica. Gallotta grazie a Cunningham, torna a riconciliarsi con la danza.
Non più prete dunque, ma di nuovo coreografo. Ma il suo amore per la danza è contrastato. Così contrastato che all’età di 27 anni il coreografo è colto da una grave crisi di depressione nervosa. L’anno successivo si reca a New York: “apparentemente guarito”, scrive di se stesso sulla propria scheda biografica.
A 29 anni, di ritorno a Grenoble, Jean-Claude Gallotta crea il Groupe Emilie Dubois, un nome che può significare molte cose e che forse non significa nulla. Di questa compagnia intitolata al fantomatico Dubois, di quest’avventura fanno parte Léo Standard, scenografo, e Henry Torgue, musicista. E un gruppo di danzatori-attori vario, colorato, eccentrico e multinazionale. E Mathilde Altaraz, la prima danzatrice del gruppo: “E’ al tempo stesso il più bell’esempio e la massima istigatrice di tutto il mio lavoro”, dice di lei Gallotta.
Con loro, per loro, grazie a loro, dal 1980 fino all’85 Jean Claude Gallotta crea instancabilmente: con humor, con stravaganza, con freschezza. Lontano dai sistemi, per tutto “riscoprire”. Ulysse, Grandeur Nature, Daphis è Cholé, Hommage à Yves P., Les Aventures d’Ivan Vaffan, Mammane, sono le tappe di questo discorso inquieto, tenero, collettivista, iconoclasta, equilibrato nei suoi squilibri, rigoroso nei suoi abbandoni. E animato da una buona dose di audacia: l’audacia dei grandi timidi, ancora una volta.
Jean-Claude Gallotta, oggi, giunge a “raccontare” nell’utilizzo esclusivo di movimenti astratti, senza mai ricorrere a codici specificatamente teatrali. E’ all’”Istruzione-Danza” che sembra rivolgersi tutto il suo discorso creativo. Danza come riflessione sulla danza: sul balletto accademico, sulla tecnica Cunningham, sulle pulsioni primitive delle danze tribali, su certe posizioni rigide e aperte della danza indiana. Su questo procedimento riflessivo s’inseriscono le citazioni di una retorica perduta, di un’ansia di perfezione che attinge ad un mondo gestuale “sommerso”, fatto di zone oscure, di nostalgie lampanti: fatto di voglia di zone nuove, da conquistare, o da riconquistare, come territori agognati. E’ su questo linguaggio astratto e al tempo stesso capace di “narrare” (di farsi lirico e romantico ed erotico e arrogante, pur nell’assoluta astrazione) che s’innestano gli assoli gioiosamente psicotici di Gallotta, ricami gestuali dall’ansia compressa ed esplicita, prigioni di gesti rispetto a cui l’attore artefice si rende al tempo stesso dominatore e dominato. Tutto il plurismo intellettualistico di Gallotta nasce da un curioso senso sacrale della danza, che nella sua apparente irriverenza conserva il rispetto per l’Istruzione (Danza). Vista come paradiso perduto, come termine di trascendenza, come alba della vita, come immaginifica utopia. Vista come universo poetico in cui tutto è possibile: ogni folla, ogni malizia, ogni atto d’amore, ogni surreale manipolazione del movimento.
E’ in questa strana “mistica” della gestualità, in questo intellettualismo candido e astuto, in questa fantasia di danza bizzarra e irrequieta, ambiziosamente protesta verso una nuova antropologia della danza(“quella nuova razza di attori-danzatori che sta reinventando l’arte coreografica”, dice Gallotta), che Jean-Claude è riuscito a trasformarsi, nel giro di pochi anni, in uno dei coreografi più seduttivi della nuova danza europea.

Coreografia Jean-Claude Gallotta
Musiche composte e suonate al piano Henry Torgue
Costumi Leo Standard
Luci Manuel Bernard
Interpreti Jean-Claude Gallotta, Mathilde Altaraz, Pascal Gravat