La ricerca costante di cambiamento fa di Maguy Marin una coreografa ‘resistente’, non solo al tempo e agli eventi, ma alla vita. Per lei resistere significa creare mettendosi ogni volta in discussione, spingendo chi guarda a fare lo stesso. “Uno spettacolo - ama ribadire - non può certamente cambiare il mondo, ma può forse cambiare coloro che lo guardano”. Così nel suo immenso repertorio (una cinquantina di titoli, di cui molti capolavori), che spazia dalla danza pura al Tanztheater, al quasi-teatro e all’installazione, il comune denominatore resta parlare dell’uomo, dell’individuo in rapporto al gruppo e alla società.
BiT è la sua ultima creazione realizzata per la Biennale de la Danse di Lione 2014. Il brano segna il ritorno al movimento, a un rapporto stringente, quasi ossessivo, con la musica. Tutto comincia da un lavoro sul ritmo, come il ritmo di ciascuno si articola in relazione a quello degli altri. Una questione ‘politica’ per Marin sebbene lo spettacolo non la enfatizzi. Come si formano le masse? Come le solitudini? Quale mistero regola i flussi?
Lo spettacolo è una sorta di lotta, di resistenza alla morte per sette interpreti ossessionati dal ritmo, travolti in una farandole incessante che li trascina nel vuoto. E questo viaggio nell’abisso, nell’incapacità di sganciarsi dal passo della società, si svolge su un’ostinata musica techno creata dal giovane musicista tolosano Charlie Aubry. La scena è spoglia, ci sono soltanto sei pedane inclinate sulle quali i danzatori si arrampicano, saltano, scivolano. Sotto, una catena incessante di danze che rimandano alla tradizione folk, al rito tribale. Un’insistenza insensata di bit che sfocia in una sessualità incontrollata.
Con magistrale lucidità e impareggiabile poesia Marin disegna il girone infernale della società postmoderna, un’umanità ridotta a un refrain di sesso-divertimento-nulla da cui c’è una sola via d’uscita: la fuga.