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09/09/2001 - 19:00

Teatro Zandonai

Absolute zero

Anche per Saburo Teshigawara, nato a Tokyo nel 1953, con studi di scultura, mimo e danza classica alle spalle, la tappa d’obbligo europea, dove subito emerge con forza tutta la sua peculiarità, è il Concorso Coreografico Internazionale di Bagnolet. Al suo approdo in questa vetrina rivelatoria con “Kaze non sentan”, ovvero la punta del vento, appare immediatamente evidente che il suo linguaggio di danza non somiglia né a quello della tradizione classica giapponese né al Butoh, la danza moderna postatomica nipponica. Il suo modo di situarsi nel panorama coreografico contemporaneo non appartiene né solo all’est né solo all’ovest, ma nasce da una personalissima qualità di movimento, che può passare dalla lentezza più controllata, di orientale concentrazione, alla rapidità più tecnologicamente influenzata in un corpo capace di accelerazioni stupefacenti e perfettamente leggibili, ad altissima definizione. E’ lui stesso a creare scenografie, costumi e luci per i suoi soli, come “Here to Here”, ascetico e puro in un cubo tutto bianco, e per il suo gruppo Karas, fondato nel 1985 con la danzatrice Kei Myiata, come nel caso dello choccante “Noiject” allestito in un enorme magazzino di Yokohama, con il palco coperto di piatti di ferro e con una musica furiosamente rumorosa. In Europa collabora dal 1990 con il TAT di Francoforte, di cui attualmente è direttore artistico William Forsythe, che lo ha invitato a creare alla Neue Oper “White Clouds under the Heels Part I & II”, un brano che ha colpito per la capacità di evocare calma meditativa, fragilità dell’esistenza, eternità e vanità allo stesso tempo. Ma anche Jiri Kylian lo ha voluto come coreografo ospite nel 2000 per “Modulation”, destinato al Nederlands Theater 1. Anche negli Stati Uniti, al suo arrivo al Next Wave Festival di New York nel 1992, Saburu Teshigawara è stato salutato come un artista davvero innovativo, sorprendente, unico. “Absolute Zero”, che è stato definito “movimento in assenza di movimento” è un duo del 1998 che rappresenta la quintessenza della fisicità di Teshigawara, capace di fare del proprio corpo, in dialettica con l’aria in cui si muove, una affilata silhouette abbigliata a strati rotanti in abito nero, di contro a quello della partner vestita di bianco, quasi come la sua ombra in negativo. Ogni dettaglio corporeo si esalta, per la rapidità incredibile o per le micro-vibrazioni mercuriali, dei nervi prima ancora che dei muscoli, impresse alle membra apparentemente statiche da Saburu; una modalità inedita che sembra farlo oscillare con agio tra apparente spontaneità e precisione millimetrica, tra grazia divina e potenza serena, creando il proprio universo, il proprio respiro del mondo, intorno a sé. L’effetto, magnetico, è di una seduzione sovrumana, di materia e spirito insieme, padroneggiati carismaticamente. Teshigawara è anche scrittore, regista d’opera (“Turandot” coprodotta da Bankamura a Tokyo e dal festival di Edimburgo), attore (nel film “Gojo-Reisen-Ki” di Sogo Ishii del 1999), illustratore (“Blue Meteorite”, editore Kyuryu-do, 1989), autore di installazioni come “Dance of Air” (Monaco, Francoforte, Vienna) e regista di film come l’elegante “T-City”, sulla sparizione del corpo nella trasparenza, e “N-Ever-Para-Dice” per la rete satellitare della tv giapponese NHK, con Jacopo Godani (il danzatore e coreografo italiano rivelato da William Forsythe), David Kern, Kei Miyata e Teshigawara stesso. Interprete di performance sensazionali, in cui è seppellito per avvertire la pressione della terra e della gravità, o in cui cammina su cocci di vetro acuminati, «perché tempo e spazio si spezzano quando si spezza il vestro», coreografo di una sua originale versione del “Sacre du Printemps” per la compagnia di balletto dell’Opera di Monaco di Baviera nel 1999 «cercando di tirare fuori il tema del sacrificio dalla musica e non dal racconto e utilizzando le doti fisiche e caratteriali dei singoli danzatori», Teshigawara è l’artista completo, veramente nuovo, che ha imposto un’estetica e una poetica scenica inedita, rigorosamente tridimensionale nell’essenzialità del vuoto (“Vacuum”) e del buio (“Documents”), per disegnare intense- e astratte- tessiture di sensazioni, dove luci e video hanno un posto privilegiato. Quasi a stringere la mano a quella ardita americana, Loie Fuller, maga del colore proto-tecnologico e dei veli luminosi, con cui Oriente Occidente 2001 inaugura un nuovo millennio e un nuovo percorso di incontri agli estremi confini della creatività.